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Pegaso e gli acchiappagonzi

Acchiappagonzi bàlzano repentini sulla groppa di Pegaso e dan scompostamente di sperone ai reni. Si autonominano poeti, smaniano invano e propugnano estetiche rivoluzionariamente nuove. Strepitano come femminucole bisbetiche e scagliano anatemi. Percuotono pelli di tamburo all’angolo del quartiere e recitano auto da fé impossibili. Ma poi, basta che il mitico destriero dalla criniera burrascosa s’impenni lesto in verticale ascesa e si ritrovan come se nulla fosse disarcionati nella fanghiglia. Vi sguazzano dentro a quattro zampe allegre, come cianciabarucchi molesti e dissennati che il fato abbia sdegnato di assecondare. Le Muse sorridono: a che vale meritarne lo scherno così, mi chiedo sgomento?

Esule a Parigi

Barsabucco vende i biglietti a prezzo scontato al piccolo Ridotto. Vibrano i tamburi nell’anticamera della notte. Gli dèi si spiano, vicendevolmente gelosi delle proprie impulsive e fosche voluttà. Incombe l’Africa come una tenebra incontesa: che sia soltanto un sipario da tragicommedia giacomiana codesto che mi si para innanzi? Maculato di pece scarlatta e nei panneggi lacero, esso pare che stenti in qualche modo a levarsi, a rivelar la scena. Forse la scena non c’è, soltanto gli àssiti corrosi. Qualcosa si vede però: è forse Tito Andronico o è Aronne colui che incede laggiù, assetato di nuove tracotanze? E se fosse soltanto un’ombra? A ben considerare, penso proprio che questa sera me ne andrò cheto a bazzicare altrove. Cercherò liti migliori in cui affogar gli affanni. Forse al Poeta troverò di che cenare all’italiana. In fondo mi basterebbe finir la giornata così, con un piatto caldo e le vocali appropriate, che anch’esse in questa sera d’autunno stentano a venire.

Audace scuola boreal

Beatamente ignaro di ben peggiori future usurpazioni che sarebbero accadute nel nostro paese, così andò secoli or sono sermoneggiando adirato il Monti sul decadere della mitologia classica, il cui trono egli ritenne fosse oramai irrimediabilmente usurpato da quella che gli piacque definire la nuova audace scuola boreal:

Audace scuola boreal, dannando
tutti a morte gli Dei, che di leggiadre
fantasie già fiorîr le carte argive
e le latine, di spaventi ha pieno
delle Muse il bel regno. Arco e faretra
toglie ad Amore, ad Imeneo la face,
il cinto a Citerea. Le Grazie anch'esse,
senza il cui riso nulla cosa è bella,
anco le Grazie al tribunal citate
de' novelli maestri alto seduti
cesser proscritte e fuggitive il campo
ai Lemuri e alle streghe. In tenebrose
nebbie soffiate dal gelato Arturo
si cangia (orrendo a dirsi!) il bel zaffiro
dell'italico cielo; in procellosi
venti e bufere le sue molli aurette;
i lieti allori dell'aonie rive
in funebri cipressi; in pianto il riso;
e il tetro solo, il solo tetro è bello.

E tu fra tanta, ohimè! strage di Numi
e tanta morte d'ogni allegra idea,
tu del Ligure Olimpo astro diletto,
Antonietta, a cantar nozze m'inviti?
E vuoi che al figlio tuo, fior de' garzoni,
di rose còlte in Elicona io sparga
il talamo beato? Oh me meschino!
Spenti gli Dei che del piacere ai dolci
fonti i mortali conducean, velando
di lusinghieri adombramenti il vero,
spento lo stesso re de' carmi Apollo,
chi voce mi darà, lena e pensieri
al subbietto gentil convenienti?

Vincenzo Monti, Sulla Mitologia.

Lexicon latitudinarium, I

Il Lexicon Latitudinarium è ormai giunto, per venerando e storico tragitto, al trentaseiesimo volume, e alla stesura delle definizioni di alcuni lemmi minori mi pregio di avere in minimissima parte collaborato. Né al lessicografo né al lettore accorto che abbia qualche volta inteso giovarsi dell’ausilio etimologico di tale illustre strumento e mettere mano ai suoi monumentali regesti sarà sfuggita di certo una voce dal carattere indubbiamente dotto e dalla pertinenza più che mai attuale, che qui voglio riproporre per il beneficio dei miei lettori:

Carontide = sostantivo e, in rari casi, aggettivo (Carontideo risultando più comune nell’uso aggettivale). Tardo postmoderno; voce dotta attestata in tempi relativamente recenti, dal dantesco Caronte (nocchiero infernale, Inferno, Canto III). Altri (A. T. de Bosci) pensa che riproduca una voce assira, forse di derivazione chtuliana, col senso di mago, siccome divinatore d’oracoli, e accosta a charontidan, immagare, ma probabilmente trattasi di voce con doppio significato, come farebbe crederlo il sscr. Khar-in, che propriamente vale purificare e fig. festeggiare, onorare e poi sacrificare (onde Karhia, grande sacrificio, oblazione).
Termine di sfumato dileggio e palpabilmente intriso di ironia sottile.

Pallido nocchiero informaticus; homunculus ludiferus cinico e rettorico; esangue (e "bianco d’antico pelo") adoratore del dio Modem; individuo volgarmente dedito allo spaccio di ludi virtuali et alia intesi al traviamento dei giovani intelletti. Psicopompo cibernetico e traghettatore transacherontico d’anime prave e afflitte da incontinenza virtuale. Microsofticus o Linusianus che egli sia, il Carontide procura di traghettare gli ingenui Adediretti all’altra riva, id est alla dannazione finale del gioco, nella tenebrosa palude profonda e perduta di Luduslandia. Seguace del subdolo dèmone Ludifernus (o Lussiferus), ipostasi serpentiforme di Caim, il grande sofista, egli professa fede assoluta nel Vuoto Pixelliano, pratica sacrifici talora cruenti e si prostra servilmente dinnanzi ai piatti schermi informatici, dispensatori di perdizione. In nomine formattationis, il Carontide, vettore addivinato di inevitabile espiazione, non esita a rimasterizzare i cerebri inermi dei suoi accoliti fino ad alchemizzarli in tenebrose voragini floppizzate e vacue. Non esistono, che se ne abbia notizia al momento attuale, raffigurazioni iconografiche che ne illustrino la tipologia emblematica, a meno che non si desideri ricorrere a icone di carattere peraltro riconoscibilmente spurio.
Deriv. Carontideo; Carontizzare; (In)carontizzato (?)

Emblemata

Mi è stato chiesto il perché delle due figure dal capo bendato al sommo della pagina; se abbiano senso emblematico e quale esso sia, nel caso. Non credo si possa realmente squadernare il senso di un simbolo, se non in modo approssimativo, e quindi meramente antologico e pertanto fuorviante. Mi è parso di scorgere nei danzatori bendati della raffigurazione una qualche affinità simbolica con certi qual Latitudinari di cui ho discorso inizialmente, gente che parrebbe prendere disinvoltamente alla larga le cose serie, cercare sempre scorciatoie, non soffermarsi mai al momento giusto, dileggiare gli dèi, ritenere che tutto sia d’intorno dovuto loro gratuitamente, che tutto sia profano, profanatori in fondo essi stessi, popolo del nuovo millennio insomma, succubi di mille spettri, adoratori di schermi a cristalli liquidi, pallide larve trapunte di metallici innesti o di idee d’atroce attualità. La benda potrebbe essere la nebbia che avvolge loro il capo, che si tramandano l’un l’altro, che impedisce loro la vista, che li costringe a menar danza accademica o puramente fatua, danza sommamente imbustata, priva di sentimento, cioè. Emblemata essi stessi del vuoto, tali Latitudinari (di cui già non mancai di ricevere precaria e iniziale notizia illo tempore, prima della catastrofe, quando gli ultimi prati ancora cingevano di margherite le antiche mura della città) mi appaiono epigoni ossessivi di una sconcertante postfilosofia, omuncoli Hitchcockiani destinati a precipitare dalle più alte torri. Ritengo infine, per farla più breve e trasparente, che i simboli non si debbano svelare e che meno si concettualizzi sopra di essi meglio sia, poiché è extra limen che essi andranno ad operare, a trasmettere intuizioni antiche, a scuoterci da questo nostro torpore terminale.

Tango finale

Ballerina: Invitami alla pista almeno per questo tango finale, ballerino orgoglioso e fiero.
Milonguero afflitto: Danzerei invero con te, adirata magalda, se una trista versiera non fossi, se non mi rendessi arduo misurare i miei passi al compas del tuo compiacimento. Non sai che interdetto è alle signore pressare invito? Ti prego quindi di cabecear lungi da me. Risparmiami il tuo ardito Piazzolla, che mal si addice comunque ai nostri vecchi labirinti. “El tango es el encuentro de dos exilios”, tu affermi, sfoggiando ispanica possanza. E se pur fosse? “Ver bailar el tango es ver desposarse dos espejismos”, aggiungi poi. E con tutto ciò? Mi tedia questa tua linguistica erudizione, quasi intendessi pormi di fronte a filologie e fatti compiuti di cui ignoro il senso. Mi aggrada profumare la notte con semplici arabeschi, e disdegno malinconie che si aggiungano a questa mia che mi contrista.

... e intanto i merli

La rondine: “… e intanto i merli prosperano ciurmando goffi Soloni e senza ritegno alcuno”, mi andava così significando un augusto e indignato cappone alcuni giorni or sono. Che sarebbe pressappoco a dire che i merli dal piumaggio bigio assumono talora penne sgargianti e vanno intrecciando traiettorie miste per l’aere, senza che gniuno procuri di ostacolarne il volo. Merli bricconi e di mal consiglio, perciò. Eppure quando i lacciuoli della Fortuna, talvolta distratta, si serreranno sopra di essi, torneranno pennuti dimessi quali la sovrana Natura un dì intese.

Fortuna: dal latino "fortuna(m)", da "fors": 'caso'. Terribile vox media che può indicare alternativamente felice sorte o destino avverso. Antica divinità romana, personificazione guerriera della forza che guida e avvicenda i destini degli uomini, ai quali distribuisce ciecamente benessere e ricchezza oppure infelicità e sventura.

Nachstücke offresi

Nachstücke offresi: al lato dei banconi di ghiotte cibarie allineati, nella penombra fitta del vespro settembrino, spiccava sotto l'antico Salone a lettere gotiche ben rilevate lo strano avviso.

Stultorum plena sunt omnia

Mi disse che vi sarebbe stata un’altra conversazione tra un paio di giorni: altre frascherie e cianciafruscole furiosamente balestrate in capo altrui, suppongo. Mi premurai di racimolare alla meno peggio qualcosa di minimamente ameno da leggere. Almeno non li avrei ascoltati, pensai. Meglio ancora sarebbe stato in qualche guisa tapparsi le orecchie, magari con la mitica cera di Ulisse, quella che egli raccomandò ai suoi compagni naviganti, per impedire loro che le voci fatidiche delle Sirene li trascinassero ai fondali. Stultorum plena sunt omnia.

Egli debb'esser un Narciso!

Infuria soavemente l'onda lirica, che un po' dovunque si spande:

Ninnetta: "Capelli biondi, occhi neri, ampia fronte e tondo il viso."
Il Podestà: "Cospetto! Egli debb'esser un Narciso! E tondo il viso! E poi?"
Ninnetta: "Divisa gialla con mostre rosse. Stivaletti bianchi. Se mai costui passasse sul vostro territorio, addirittura fatelo imprigionar."
Il Podestà: "Sarà mia cura. Vediam se mai per caso… Olà, buon uomo!"
(Gioacchino Rossini, La gazza ladra, atto 1)

Salieri avvelena Mozart

Salieri avvelena Mozart e poi dispera. Già avverte il ludibrio del gran consesso adunato al vertice del remoto Olimpo, per schernirne l'impresa vana e mal condotta. Cala la notte fitta e tenebrosa. Nottole fosche creano labirinti nello spazio raggelato:
Terribil ombra
giganteggiando si vedea salire
su per le case e su per l’alte torri
di teschi antiqui seminate al piede.
(Parini, La notte, vv. 10-13)

Macchine miracolanti

Macchine miracolanti dominano lo spazio, usurpano l'insula utopia della felicità. Ciascuna stanza ne offre almeno una, subdolamente riposta in qualche angolo appartato, pronta a spalancare anditi ignoti verso l'oscurità. Il dio informatico riveste abiti d'anticristo e scava abissi di tenebra nelle menti semplici degli apprendisti del vuoto.

Lo straniero

Poi giunse uno straniero, greve negli anni e un po' tarchiato, che si diede a spargere ogni tipo di fanfaluca e paradosso, pensando in cotal modo di rendersi ameno ai cittadini dello strano luogo. Lungi da lui era il comprenderne i costumi astrusi, all'apparenza remoti e sragionati. Indotto rapidamente allo sgomento e reclinata la propria mole a ritroso verso il tramonto, digrignò con sdegno i denti alle più vane accuse, attirandosi censure severe e motteggi da chi mai mancava di dileggiare i viandanti improvvidi e saccenti. Gli ingiunsero l'umiltà e il silenzio. Per sette anni avrebbe dovuto tacere, percorrendo le vie rivestito del saio cinerognolo che ben s'addice agli stolti.

Storie da raccontare

Esistono storie, convengo, che converrebbe raccontare, se non si rischiasse di suscitare l'incredulità di chi le legga; storie che farebbero rabbrividire e che indurrebbero allo stupore. Tali storie è forse però meglio tacere, onde non ridestare le menti a ciò che non potrebbero comunque afferrare. Il mistero avvolge ogni cosa, e le motivazioni delle azioni umane sfuggono invariabilmente al vaglio approssimativo della ragione.

Sermones ad mortuos

Ricordo d'altri cui l'aria antica del luogo e la polvere lenta avevano incartapecorito l'anima. Si trascinavano recitando Sermones ad mortuos quasi si trattasse di semplici nenie propiziatorie o, chissà, di scongiuri per poter varcare soglie invisibili o incomprese. Grottescamente, si rivestivano di penne e si affiggevano al capo astrusi puntali, procurando di dare ad intendere che alcunché pur essi sapevano; alcunché di copernicanamente accetto agli dèi che ne governavano con mano severa le giornate pigre. Poi giungeva la sera, carica della mestizia che accarezza con dita crudeli i chiostri, e costoro se n'andavano reclinando la figura stanca, quasi intuissero che la notte li avrebbe presto carpìti a sè trascinandoli verso l'oblio.

I Latitudinari

Attraversavano lateralmente il transetto della cattedrale con passi affrettati per accorciare il proprio tragitto profano oltre la chiesa, evitando, per la pigrizia atavica che li aureolava come una peste oscura, il percorso angusto all'esterno del perimetro absidale. Li chiamavamo allora, con derisione mista alla stizza, i Latitudinari, per via di quel loro periclitare trasversale empio e irriguardoso nello spazio sacro. Grande era il dispetto di chi tentasse di conseguire indisturbato l'eternità breve della contemplazione. Gli eleganti angeli barocchi dell'altare laterale li scrutavano con sottile sprezzatura, pregustando già metafisicamente la loro perdizione. Poi, anni dopo, quei medesimi rei avrebbero smantellato la splendida ringhiera in ferro battuto del presbiterio ed eretto i loro idoli in luogo del vecchio crocifisso, ma questa, per quanto assai triste, è tutta un'altra storia.