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Intravedo De Chirico

Ambiguità e incrinatura patavina. Quella di un tempo, e oggi naturalmente trascorsa; per cui, discorrendo maltriti sentieri, mai si giungeva alla meta agognata. Tutto era allora anelito di gioventù per gli ideali discosti e nell'aria vibrava il miraggio dei colli remoti, come altari insanguinati al tramonto. Ora, in luogo dei trasognamenti, incedono masnade di sbricchi e sgherri, leguléi e streghesche pedavanvere che si vantano di non comprender nulla. Omuncoli e bertucce eteroguidate vagano per il centro tardoinvernale, e dovunque il lezzo dei tristi sprizzolabili dalle capigliature sudicie. Vi sarà ancora uno snob in questa città, mi chiedo? Qualcuno con cui io possa parlare sensatamente, uno squassapennacchi qualsiasi, un qualche guitto da cui traspaia un'anima, qualcuno che mi sappia recitare un verso, qualche barcollatore onirico che mi intrattenga all'ombra del Pedrocchi? Non vedo che gòlemi e giovinche arrancare stanchi. Intravedo De Chirico, che piange sconsolato tra i perdigiorno della Granguardia. Dalle vetrine dell'antica drogheria ammicca in turbante un vecchio nebulone dal gabbàno turchino. Chronos sospinge fragorosamente il carro. Talvolta indugia per un breve tratto e distribuisce romantiche foto ingiallite della Gaetana ai passanti incuriositi.