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Parole dolenti

Scrive Marc Fumaroli che "la televisione è un ottimo strumento qualora non si abbia nulla da perdere, come nel caso di un paese di indole nomade e privo di radici quale gli Stati Uniti, ma in Europa l’effetto dell’apparecchio televisivo è simile a quello di uno schiacciasassi che riduca la cultura al suo più basso denominatore comune". Parole dolenti, quelle del famoso teorico francese della retorica, eppure, temo, parole inutili, a giudicare dalla condizione di assuefazione pressoché totale della mente umana causata dal diabolico congegno. Ha scritto recentemente Piermaria Sauro di Montechiara, il noto studioso di semantica demonologica: “Solo attraverso l'assoluto e incondizionato digiuno mediatico possiamo sperare di dissipare, almeno in minimissima parte, le tenebre fitte con cui la tecnologia dell'informazione ha mortalmente e irreversibilmente avvinto le nostre menti, trasformandoci in pupazzi di cera ambulanti. Ci hanno convinti che sia necessario ascoltarli, che si debba essere informati, che non sia possibile sopravvivere senza la loro spaventevole volgarità, il riprovevole terrorismo psichico quotidiano, peggiore e più velenoso di ogni altra forma di terrorismo, l'assurda manipolazione della realtà, i degradanti spettacoli di varietà. Questa è la loro Grande Vittoria: il fatto che la gente non rinunci ad ascoltarli, non ritrovi infine la dignità e la forza di riuscire a dire: non accenderò più la televisione, voglio essere libero”.

Potremo mai sperare di ritornare un giorno ad essere delle persone libere?

Mappa mundi

Tra le più straordinarie figurazioni del globo terracqueo merita senza dubbio di essere annoverata la medievale Mappa Mundi del Beato di Burgos de Osma (Cod. 1, Catedral, VIII secolo, Biblioteca Nacional, Madrid), con il tondo oceano che circonda le terre come una serpe costellata di pesci e, a destra, lo straordinario sciapode supino ai raggi infuocati del sole nella terra incognita.

Pulvis et umbra

Mi accade talvolta di rileggere stralci dai vecchi tomi scolastici, di imbattermi in perle antiche, in rammemorazioni dei tempi liceali, di interrogazioni inattese nelle vecchie aule che davano sul chiostro, quando la vita sapeva ancora di autunni dorati e fosche primavere:

"E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel lago e stridere, come di mirabili popoli che piagnessero e urlassero. E pervenuti che sono fra due monti altissimi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con quattro catene, e due delle quali eran confitte nell'un monte e l'altre due nell'altro; e tutto intorno a lui era fuoco, e gridava sì fortemente che si udiva bene quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda, laidissima e scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo, e quando ella volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il capo in bocca, e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi infino a terra."

Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura del dragone: "Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori, e la barba e i capelli pareano d'oro, e ' denti suoi parevano di ferro, e gli occhi acuti e lucenti come fuoco acceso, e colla bocca aperta menava la lingua, e parea che per le nari e per la bocca gittasse fuoco, e puzzo gittava di zolfo."

Tra le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio di frate Alberico, e quella d'Ildebrando, poi Gregorio settimo, che predicando innanzi a papa Niccolò secondo, narra di un conte ricco, e insieme onesto, "ciò che è proprio un miracolo in questa gente", egli dice. Questo conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo d'una scala lunghissima, che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù nell'inferno. Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest'ordine, che quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino, e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un grado verso l'abisso, dove tutti l'uno appresso l'altro si sarebbero riuniti. E chiedendo il santo uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in terra buona fama di sè, si udì una voce rispondere: - Uno degli antenati, di cui il conte è l'erede in decimo grado, tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione. - Questa pena, che colpisce un'intera generazione, è molto poetica, mostrando l'inferno nel sublime d'un lontano indeterminato, messo costantemente innanzi all'immaginazione de' condannati, che a grado a grado vi si avvicinano insino a che non vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano l'inferno.

Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, è il peccato; che la virtù è negazione della vita terrena, e contemplazione dell'altra; che la vita non è la realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtà non è quello che è, ma quello che dee essere, ed è perciò la scienza, o la verità, come concetto, e come contenuto, è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio e il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia.

Appunto perché l'individuo è pulvis et umbra, e la realtà è pura scienza ed un di là della vita, questo mondo resiste ad ogni sforzo d'individuazione e di formazione. Lo stesso amore, così possente, non ci può gittare un po' di calore e non ci vive se non come figura e immagine dell'amore divino. La donna, come donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l'uomo a Dio."

Giuseppe de Sanctis, Storia della letteratura italiana.

Stampatori celebri

"Gli amatori de' buoni Libri debbono conoscerli tamquam ungues digitosque suos. Il Chiarissimo Gio. Alberto Fabricio in fine del Tomo I della sua Biblioteca Latina ne tesse un lungo Catalogo; ma siccome molti di quelli in Italia son poco noti, così io, traendoli per lo più da esso, ne registrerò qui i più da noi conosciuti, per i loro cognomi posti per via d'alfabeto, pronunziandone alcuni nel numero plurale, perché varj discendenti dal primo, seguirono ad illustrare l'Arte Tipografica; lasciando per altro di annoverare gli antichissimi, benemeriti essi pure per avere copiati immediatamente i Codici MSS. Sono adunque per lo più: Ascensio, Asolano, Basa, Bellero, Blaew, Bombergio, Cesio, Cholino, Chovet, Colinéo, Commelino, Cramoisy, Cratandro, Crispino, Doleto, ab Egmond, Elzevirj, Episcopio, Frellonio, Frisio, Fritsch, Frobenj, Froscovero, Gimnico, Gioliti, Giunti, Goltzio, Griffj, Hackj, Hervagio, Jansonj, Isingrino, Juvene, Maire, Manuzj, Maximus Gallobelgicus, Memmio, Milangio, Morelli, Moreti, Nivellio, Nuzio, Oporino, Patissonj, Perna, Petri, ad insigne Pinus, cioè Anonymus Augustæ Vindelicorum, Plantino, Quentelio, Rafelengio, Rielio, Rovillio, Seldoniano Teatro in Oxfort, Stefani, Tiletano, Torrentino, Tornesj, Turnebo, Vascosano, de Vogel, Wecheli, e Wecheliani Eredi, Wetstenj, Winter. Ce ne sono varj anche a' giorni nostri in Italia che meriterebbero d'essere nominati con lode; come in Bergamo, Bologna, Brescia, Firenze, Lucca, Napoli, Padova, Roma, Torino, Venezia, Verona ec. specialmente per certe celebri Opere da essi accuratamente pubblicate; ma ciò più opportunamente faranno i nostri posteri."

Gaetano Volpi, Del furore d'aver libri, Varie Avvertenze Utili, e necessarie agli Amatori de' buoni Libri, disposte per via d'Alfabeto.

Est ubi gloria nunc Babylonia?

Che cosa rimane mai di tutte le bellezze e gli splendori umani? Un ricordo, un nome. E di Aristoteles, summus ingenio, che cosa mai rimane se non una galleria di specchi, che ad altri specchi rimandano?

Est ubi gloria nunc Babylonia, nunc ubi dirus
Nabuchodonosor et Darii vigor illeque Cyrus?
Qualiter orbita viribus incita praeterierunt.
Fama relinquitur illaque figitur; hi putruerunt.
Nunc ubi curia pompaque Iulia? Caesar, obisti.
Te truculentior, orbe potentior ipse fuisti.
(...)
Nunc ubi Marius atque Fabricius, inscius auri?
Mors ubi nobilis et memorabilis actio Pauli?
Diva Philippica vox ubi coelica nunc Ciceronis?
Pax ubi civibus atque rebellibus ira Catonis?
Nunc ubi Regulus aut ubi Romulus aut ubi Remus?
Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus.

Bernardus Morlanensis, De contemptu mundi, Liber primus.

Tango illunato

Maschere contrapposte danzano nella penombra, celano altre maschere, volti diversi. Si ritraggono e avanzano, si sovrappongono quasi scomparendo. Maschere e lontananze creano volumi nuovi, ma i danzatori non stanno affatto più lì. I loro passi soltanto fingono, e a chi li osservi con occhi grondanti di luna non potrà sfuggire quel rimestare lento dell’aria, quel sacrificio sommesso che in ciascuna figura evoca uno spazio nuovo. Le ombre si mescolano ad altre ombre e muoiono. Le maschere sacrificano alle Muse delle tenebre il miele attoscato del giorno.

Iconografia carontidea

Il fatto che, in un’epoca sommamente incline all’immagine quale la nostra, non esistano raffigurazioni iconografiche ufficialmente attestate dell’enigmatica ma bastantemente comune figura del Carontide (neppure, si badi, nell’ambito della rete informatica, eterodossa e fagocitante matrice di grafiche subliminali) induce più di un dubbio a riguardo di parecchie questioni. Del Carontide, ricorderà il lettore, ho già voluto fornire una puntuale definizione tratta dal monumentale Lexicon Latitudinarium, la fonte etimologica più autorevole in materia attinente alla sconcertante latitudo morale dei nostri tempi.

Quale potrebbe essere, diviene legittimo chiedersi, il motivo di tanta riservatezza laddove di Carontidi si tratti? Perché una tale forma, mi si permetta l’espressione, di integralismo iconografico a loro riguardo? Che vi sia qualche misteriosa congiura di grafica omertà? Che si apparecchi qualche macchinazione o alto intrigo d’Olimpico corridoio? Che esistano strategie di salvaguardia commerciale che impediscano la pubblicizzazione del nome del ruolo e della figura carontidei? Tutto è possibile. Sta di fatto che il Carontide appare oggi aureolato di un consenso sociale inaudito fino a tempi assai recenti. Che sia addirittura, fa capolino il sospetto, non più di tolleranza ma di vera e propria complicità che sia lecito parlare? O forse qualcosa dopo tutto mi sfugge? Un qualche sofisma logico di quelli consueti, che recano in sé la giustificazione della catastrofe di una cultura intera?