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Caro signore II

Caro signore,

le sono oltremodo grato di continuare ad offrirmi spunti preziosi, per quanto talora illucidi, in merito ad alcune acclarazioni ormai da tempo necessarie concernenti Barocco minimo et alia. Il profilo personale da Lei fornitomi, per quanto limitato (absentia cognominis, in primis, che mi auguro Lei provveda a risolvere in via privata), mi consente quantomeno alcune annotazioni in margine, nulla più badi bene che umilissime postille, le quali potrebbero tuttavia, alla resa finale dei conti, non rivelarsi disutili. In tal sua osservazione Lei fa sorprendente riferimento a Cyberione sotto specie di “personaggio”, oltretutto e presumibilmente inventato dal sottoscritto. Mi consenta immediatamente di correggere tale suo assunto, che le assicuro essere, nella sua sconcertante audacia, totalmente infondato. Mi duole anche lontanamente pensare che si sia mai potuti giungere a siffatta temeraria congettura, che io mi sia cioè mai concesso l’impensabile libertà di “inventare” alcunché, e in materia diaboli per giunta. La creatività, osannata oltre ogni limite di decenza ai tempi nostri, non è mai stata per me, mi creda, motivazione prioritaria.

La possibilità difatto da parte dell’uomo di inventare qualcosa, abbia la bontà di credermi, altro non è che banale e risibile superstizione moderna (una tra le innumeri), tuttalpiù cianfruscola giovanile, e frutto di quell’aporia dell’intelletto che già l’Aquinate, come Lei ricorderà, aveva severamente stigmatizzato a suo tempo. Parrebbe oltretutto quantomeno inopportuno, non le sembra, e forse anche sanzionabile in modum inquisitionis, permettersi di dubitare, persino in un’epoca tepidamente agnostica e insipida quale la nostra, della massima biblica Nihil sub sole novi. No, Cyberione non è mia invenzione: direi piuttosto, ribaltando simmetricamente e con un ardito coup de théâtre, i termini della vexata questio da lei inconsapevolmente ma significativamente sollevata, che siamo bensì noi oggidì ad essere invenzione sua (del detto C., che non è bene nominare spesso).

A riprova dell’esistenza concreta, benché sub specie spirituale, del suddetto ens diabolicum, mi sarebbe assai agevole peraltro, senza spero voler far sfoggio di scolastica erudizione, invocare tutta una filza di fonti inconfutabili, prima tra le quali naturalmente quei Sermones ad mortuos di Carolus Elveticus (apud H. Dendrinum, Amsterdam 1660), cui avevo già debitamente accennato a suo luogo, o il De subtilitate rerum, XXII, 333 di Girolamo Cardano o l’Exotericarum exercitationum dello Scaligero, la cui invettiva non cessa a distanza di molti secoli di stupirci, o la Relatio de ossibus diaboli, Liber 666 del noto eresiarca Maximus Gallobelgicus o addirittura quel celebre secentesco trattato di demonologia che Sua Maestà Iacobus Primus Rex si degnò di comporre o le incompiute Collationes in Hexaémeron di san Bonaventura da Bagnoregio, et caetera.

Il Lexicon latitudinarium medesimo, mi pregio di rammentarle, contiene una voce seppure soltanto in fieri relativa all’argomento trattato, che mi auguro possa presto pervenire alle stampe. Insomma, le fonti stanno lì innumerevoli a squadrarci eloquentemente e a comprovare la mia tesi. Si compiaccia quindi di assolvermi, mio caro signore, da quell’incresciosa attribuzione di cui Lei mi ha fatto, pur se in buona fede, involontario oggetto.

Per quanto riguarda poi “l’arte da museo” e i “decantati classici”, di cui nella Sua mi giunge ingrata notizia, le consiglierei, seppur con la dovuta umiltà e facendo leva sulla saggezza minima che consegue all’esperienza, di desistere dalla pratica dannosa di tali fole, frutto evidente dell’impulso giovanile. Oltre che affliggermi il pensiero all’idea del tempo sovente da molti sprecato in gioventù per tali bagatelle, mi tedia oltremodo la postromantica e imbarazzante inezia della ribellione, trita e ritrita dall’uso dopo due secoli e oltre di illuministici e inconcludenti eccessi. Che l’Arte possa poi venir “dal basso”, come Lei afferma, è teoria di per sé più che mai agghiacciante e latitudinaria (quindi sommamente eretica). Dal basso le giungeranno tuttalpiù le esalazioni carontiche dei mesti avediretti, il lezzo di chi va strisciando sul ventre flaccido della serpe, i dimenamenti pelvicali ossessivi delle bovinde, lo zolfo acre della venetica Biennale, e così via all’infinito e postmodernamente elencando. Il diavolo, non esiti a credermi, è un gran dottore, e di filosofia e rettorica un insuperabile maestro.

Si sforzi quindi, mio giovane Horatio, di dissipare dalla sua mente confusa al più presto i phantasmata dei virtualia, che con i loro lacci e tranelli la trascineranno prima o poi di sicuro alla botola oscura della rovina. Si abbandoni alla guida della grazia dobbsiana senza la quale non puote esservi salvezza. Il fatto stesso che la sorte l’abbia condotta in questa direzione potrebbe assurgere a segnacolo d’un itinerario nuovo.

Del mio mestiere, poco le posso dire, se non che di massima mi curo di questioni escatologiche e consimili. Da decenni ormai, rinchiuso pensosamente nella penombra della mia torre e prigioniero rassegnato d’un vasto specchio in un palazzo veneziano, vado occupando le mie giornate nella compilazione minuziosa di quell’opus magnum al cui termine temo che mai potrò sperar di giungere. Le basti il suddetto a soddisfazione, per quanto immagino parziale, dei suoi pur legittimi e comprensibili quesiti.

Il significato di Barocco minimo è, per quanto mi riguarda, abbastanza ovvio: in oxymoro stat veritas. Cosa affermare di più al riguardo? Il termine mi giunge dall’alto, et hierarchia occulta, per così dire. Non me ne attribuisca, la prego, il merito, di cui mi professo sinceramente indegno.

Come ultima osservazione, e forse la più rilevante, mi preme sottolineare la presenza, probabilmente da Lei trascurata in quanto scarsamente visibile, della fuggevole punteggiatura a seguito del nome Barocco minimo. Non potrebbe porsi l’ipotesi, cortesemente le chiedo, che in quei tre puntini possasi celare la cifra ultima d’un qualche significato? Non parrebbe tale punteggiatura indurre al sospetto di una qualche presunta continuazione a completamento del titolo? E se tal esso fosse, non si prospetterebbe allora l’esistenza, per quanto dissimulata, d’una facciata occulta a retro dell’apparato accattivante del nomen? E in cosa potrebbe mai tal completamento consistere? E potremmo noi inoltre considerare il titolo Barocco minimo come soddisfacente di per se stesso, senza cioè la parte completiva e segreta al seguito? Potremmo cioè, in altri termini, accontentarci della facciata visibile della luna senza saper alcunché di quella nascosta e speculare ad essa che si cela segretamente alla vista comune?

Non è forse tutto ciò, mio caro Horatio, materia più che sufficiente a sollecitare una complessa riflessione?

Rinnovandole i miei voti di cortesia, ne approfitto per porgerle i più cordiali saluti,

il suo devot.mo et caetera et caetera.

Die X mensis Septembris, anno Domini MMVII