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Il pritaz s'è insediato


Il pritaz s'è insediato in sala codenti, nero come un gesuita richiede  pasvorda a tutti, anche ai morenti. Passaparola vuole, e a tutti ciò assai duole. Il gran Buchincullo gli aggiusterà presto le suole in modo che più non possa camminare, pritazzo sporco di fetido e impedofilato malaffare.

Tutto si risucchia in gran svaticànno

Si defarsì che il setuìga si svaticanni alla gran cacchiusdicanni. Ci pensa Botolinus ad affibiargli il colpetto, gli assesta di punto in bianco il mamarmetto. Il museo è incluso nell'affare e la Misericordia pure, a quanto pare. Tutto si risucchia in gran svaticànno e i pedofili infine, contriti e morti, se ne vanno. Muoiono tutti i buffoni mamerlucchi e il gran Bomberciucco danza come un ossesso e invero spesso lo infila dentro il fèsso. La fenditura svacchera e balza a suon di nacchera. E' tutto un gran casinus, afferma Botolinus. Con Linus ebbi giorni d'irradiamento e storni. Pensate ch'io stia rappando? Lo faccio di quando in quando. Con Durga io m'arrappo, gustandomi il vecchio strappo, eppure in carne lesa risolvo un po' più in su la spesa. Non so che diavolsìa, lo spiego appena posso alla gran zia.

Il grande facchero.

Il Santico s'arrufola, di brutto ha perso il facchero e, senza dubbio alcuno, impazza l'anunnacchero. Davvero il grande facchero è figlio d'anunnacchero e quando perdi il facchero scateni l'anunnacchero. E scuote e spezza lance Guglielmo il sacherpante, o sacripante sia, lo esige la Maria. Antica e gran vestale, con pié sesquipedale, con agile incalzare, mi liscia la scazzìa. Palazzo Cumelano si acquatta a fine ano e tutte le gargolle si affaccian sulle folle.

L'anunnacchero Francegoglio


L’anunnacchero Francegoglio si spedofila a più non voglio.
E’ il più grande sputtanasanti, anunnaccheri  tutti quanti.

Faccecucchero più che mai quest'anticristico portaguai.

Si tangheggia il San Lorenzo con olezzo sempre spento.

All'improvviso mi chiedono ...

All'improvviso mi chiedono perché. Rispondo perché di sì. Mi chiedono come mai. Rispondo che sono stanco di vederli morire ogni istante. Mi dicono:"... e allora?" "Perché non dovrei?" io allora rispondo. E così via. Ogni giorno è per loro il giorno prima o talora, se sono più giovani, il giorno dopo. Quando sarà mai, per quella gente, Adesso? Mai più! Non lo è mai stato e mai lo sarà. Ciascuno sceglie di essere vivo moribondamente.

Recite penose, attori incompetenti, riunioni continue per confrontarsi nel nulla che li rende impotenti, carne tremula che si decompone, il medesimo tediosissimo copione, talora li avvinghia con mani antiche il razzolante stancodegitto Faraone. Sbatacchiano liste di nomi e numeri al loro fianco, mi dicono che ciacuno è stanco. Che specie di tirocinio impegna questo branco? Da questa riunione finalmente, grazie al vecchio Bob, io manco.

Ancora lì che tentate di comprendere le parole? Non riuscirete mai con quella stanca mole!

Vibrazioni folli al tramonto

La Serepride dirige del tutto invisibile, sottile come uno spillo, emette inudibile uno strillo. Imbocca di vibrazioni folli la stanca dama di cartone e dovunque nella sala s'agita il babbione. Spara frottole la vecchia spolpacciata. Che risibile frittata! Eppure credono, ascoltano, succhiano sigarette finali al mesto tramonto. Poffoinvertiti schiattano, si arrabattono, vagabondi del nulla scaracchiano, mille finchiate sputacchiano, si depravano di parole e lomattano. Non sforzarti di capire tutto ciò, non puoi più farlo. La morte ama sedurre i ciechi con idealistiche visioni, al termine avranno soltanto osceni grassi faccioni.

I barucchi incespicano

I barucchi incespicano, si plastificano i volti. Pasto degli dei. Torsione inconsapevole di chirichiane forme. Plasmaforme si contorcono tra le risate sghembe nella sala antica degli sterminatori, rimodernata al neon per riformarle a uovo. Pasto truce degli dei. Credi di capire? Cessa di leggere se non puoi neppure uscire. Balzella indietro con passo nuovo, penoso uovo. Barbarie incombono, orribili gargolle ghignano dall'alto di NostraDama. In ogni tempio Dagone brama. Vi attende, ha spento la vostra mente ... non vi è più niente.

Mente barocca

La mente che ci è stata bio-installata è fondamentalmente barocca nella propria struttura, ricolma di ombre e angoli oscuri, labirinto insondabile di stringhe lineari aliene e prive di sbocco. I guardiani sorvegliano l'esecuzione dello script, programmano nuovi stermini, infittiscono il codice ad ogni svolta del meandro. Possiedono sguardi tetri, volti che modificano a piacimento, lame che tranciano la visione. Vi circondano all'interno del vostro cubico claustrofobico volume privo di spazi. Pippi foffo foffo foffo .... pippi foffo foffo foffo .... lo sguardo progressivamente goffo.

Le immagini si infittiscono

Le immagini si infittiscono, tracciando il circolo in senso opposto, accelerando vertiginosamente la discesa. Di giorno in giorno li vedo morire nella quotidianità di mille ripetizioni. Piango talvolta per questi Latitudinari, non potendo far nulla per mostrare loro la luce oltre il velo. Ogni lieve movimento scardina il tracciato mortale, lacera senza scampo l'energia rappresa in loro dell'Aquila. An è tra noi e li massacra senza pietà alcuna. Il suo nome è Legione, molteplici i suoi messaggeri di morte, Nebiru il luogo. Non sanno nulla perchè sono ancora vivi. Ogni parola è un addio.

Possente parassita

Ombre sbiadite, li intravedo barcollare ogni giorno, infelici Latitudinari, forti del proprio Nulla annientatore. Il predatore, possente parassita e signore alieno dell'oscurità, possiede implacabile le loro menti, parla con le loro voci, distorce e impasta i loro volti disumanizzati, conducendoli ogni singolo istante verso il baratro finale. Servitori inconsapevoli di An, si illudono di sapere, di potere guidare altre ombre, software senza speranza alcuna. Attenti: il tempo si accorcia.

La trance e il pendolo

Qualsiasi forma di conoscenza che sia dettata dalla mente razionale, e pertanto lineare, non serve a nulla, se non a perpetrare lo stato di trance in cui l'uomo occidentale vive quotidianamente. Tali conoscenze portano rapidamente al rafforzamento dell'io e all'annientamento finale. La mente è una sorta di pendolo, un apparato ideologico che conduce con somma banalità al nulla conclusivo.

Intravedo De Chirico

Ambiguità e incrinatura patavina. Quella di un tempo, e oggi naturalmente trascorsa; per cui, discorrendo maltriti sentieri, mai si giungeva alla meta agognata. Tutto era allora anelito di gioventù per gli ideali discosti e nell'aria vibrava il miraggio dei colli remoti, come altari insanguinati al tramonto. Ora, in luogo dei trasognamenti, incedono masnade di sbricchi e sgherri, leguléi e streghesche pedavanvere che si vantano di non comprender nulla. Omuncoli e bertucce eteroguidate vagano per il centro tardoinvernale, e dovunque il lezzo dei tristi sprizzolabili dalle capigliature sudicie. Vi sarà ancora uno snob in questa città, mi chiedo? Qualcuno con cui io possa parlare sensatamente, uno squassapennacchi qualsiasi, un qualche guitto da cui traspaia un'anima, qualcuno che mi sappia recitare un verso, qualche barcollatore onirico che mi intrattenga all'ombra del Pedrocchi? Non vedo che gòlemi e giovinche arrancare stanchi. Intravedo De Chirico, che piange sconsolato tra i perdigiorno della Granguardia. Dalle vetrine dell'antica drogheria ammicca in turbante un vecchio nebulone dal gabbàno turchino. Chronos sospinge fragorosamente il carro. Talvolta indugia per un breve tratto e distribuisce romantiche foto ingiallite della Gaetana ai passanti incuriositi.

Taddäus Flugbeil sghignazza

Taddäus Flugbeil sghignazza come un pinguino morto dall'alto di Hradčany. Natale aggrava come un masso. Gesù Bambino è in ferie a Cortina. Panettoni farciti aggrandano bipedi dalle ganasce immense. Vecchie Sibille divorziate strisciano impellicciate e stracche lungo le pareti disintonacate dei vicoli. Tutto, questa sera, sorprendentemente termina in "ate". Presepi ospitano gobbelloni maligni nella luce soffusa del lesto imbrunire.

Quale paese abbandonato da Dio è mai questo? Nei mattatoi commerciali chiassosi e sovraffollati si plasmano coscienze da rivendere a prezzi scontati. Vanitas trinca e si pavoneggia con compiacente indecoro. Delitto dovunque impera. Fantasime e bismatti color carnicino saltellano nel baraccone metafisico. Il ciarlatano Celionati digita affrettatamente il 2012. Astronomi sprizzolabili si sfracellano fragorosamente dalle altane del ghetto antico.

Non voglio più saperne di inforcare questi oculi de vidrio mirabolanti, che m'impacciano tristemente la vista. Riconsegnatemi, per favore, le lenti giuste, e da tempo smarrite. Questa sera voglio andarmene da solo in cerca di Giovanni Oca, camminare con lui di nuovo nelle foreste sorelle del Pavano Antico. Rivedrò finalmente le Muse eterne, le ballerine dai piedi lievi di rugiada nel bosco, e sarò felice.

L'acqua di Saverio

Se i nostri cuori sono impuri tutto apparirà follia. Il velabro delle parole offusca ogni cosa. E' il verbo a generare nel tempo i tetri e ineludibili labirinti. Allontaniamo i cerretani immondi. La parola uccide in noi lo Spirito. Incessantemente aggirandosi per i luoghi dell'aura cui conduce il cuore, l'umile pellegrino silenzioso coglie dagli spiragli angusti del tramonto la luce intensamente incerta. Rappresasi in rara emulsione ambrata nella dolce penombra autunnale, la luce si tramuterà nel tempo, distillandosi lentamente, in quella rara e mitica acqua della vita che nei secoli è stata venerata dai sapienti. E' nell'acqua di Saverio, il miglior rimedio per debellare le infestazioni dei bruchi, che è segretamente custodita la verità. In un luogo segreto di Roma essa è gelosamente salvaguardata, presso i veglianti, che hanno vinto il sonno della morte. Più affannosamente si tenterà di trovarla meno speranze vi saranno di riuscirvi. Si appressano le ombre lunghe che conducono all'inverno. In quell'oscurità soltanto, che segretamente ciascuno teme, può generarsi la Luce. Soltanto uccidendo la vile speranza si può iniziare a vivere. Ars longa vita brevis.

Nella luce soltanto

Famuli di Fricoberetus incespicano sinistramente nell’ombra, Spicanglicus scote lance e anima sabbe macaroniche nella bruma, Ofiocos scioglie la serpe delle costellazioni, Lilia restaura i palagi inferi della perdizione. Fioriscono come petali marci gli oracoli, s’inabissa con cupi fragori il Trimondo, risorgono possenti e senza ritegno i signor antichi.

Nella luce soltanto trova silenzioso ricetto il savio.

Lilia

Dalle pagine dei Proverbi riecheggiano puntuali i moniti perennemente disattesi. Come vento impetuoso spazzano la caligine e indicano all'esausto pellegrino la via dell'ascesa:

La sua casa sprofonda nella morte,
Ed il seguirla porta alle ombre.
Tutti coloro che la seguono non possono tornare
E trovare ancora le vie della vita.
(Proverbi 2:18-19)


I suoi cancelli sono cancelli di morte
e dall'entrata della casa
se ne va verso Sheol.
Nessun che entri tornerà mai,
e coloro che la possiedono scenderanno l'Abisso.
(4Q184)

Verbum dimissum

Il maestro di Heliopolis, laborioso artefice del Verbum dimissum, ammonisce (e fuor della lettera si legga): «Esiste un paese nel quale la morte non toccherà gli uomini, quando sarà il terribile momento del duplice cataclisma. Tocca a noi cercare poi la posizione geografica di questa terra promessa, dalla quale gli eletti potranno assistere al ritorno dell'età d'oro. Perché gli eletti, figli di Elia, secondo le parole della Scrittura, saranno salvati. Perché la loro fede profonda e la loro instancabile perseveranza nella fatica avranno fatto meritare loro d'essere elevati al rango di discepoli del Cristo-Luce. Essi porteranno il suo segno e riceveranno da lui la missione di ricollegare all'umanità rigenerata la catena delle tradizioni dell'umanità scomparsa».

A nulla puo' servire l'astrazione del senso, né si confidi che l'interpretazione mistica possa sorreggerci. Al quarto grado soltanto ciascuna cosa sussiste: inferiore ad esso null'altro che le tenebre del velame ascoso. Conviene quindi stringersi a sè e pregare.

Che i segni incombano è la Natura stessa a fornire persino ai ciechi gli indizii. Pullulano i falsi maestri, del cui rovinoso avvento fummo sovente nel corso dei secoli avvertiti. Dovunque costoro si collocano, persino nei nidi più elevati, tra le grondaie.

Scrive San Giovanni: «Davanti al trono c'era anche un mare di vetro simile a cristallo; e in mezzo al trono e intorno ad esso c'erano quattro animali pieni di occhi sia davanti che di retro. Il primo animale assomigliava ad un leone; il secondo assomigliava ad un bue; il terzo aveva il volto come quello di un uomo, e il quarto assomigliava ad un'aquila che vola (Apocalisse cap. IV, vv. 6 e 7)».

Aggiunge Ezechiele: «Io vidi dunque... una grossa nuvola e un fuoco che la circondava, e tutt'intorno uno splendore, in mezzo al quale c'era qualcosa di simile al metallo che esce dal fuoco; ed in mezzo a questo fuoco si vedevano riuniti quattro animali ... E le loro facce rassomigliavano ad un volto di uomo; e tutt'e quattro, a destra, avevano il muso d'un leone; e tutt'e quattro, a sinistra, avevano il muso d'un bue; e al di sopra tutt'e quattro avevano un muso d'aquila (Cap I, vv. 4 e, 5, 10 e 11)».

Antri ludifernici

Urbs capta est ab exercitu diaboli. Salva nos ex ore leonis: et a cornibus unicornium humilitatem meam.

Antri ludifernici offrono ricetto ai figli del vuoto. Nere legioni s'ingenerano sulle mense apparecchiate del nulla. Confliggono e s'annientano in perenni livide eternità. Friggono e rifriggono cerebri senza pausa alcuna. L'angelo della negazione trasvola spazii abbrumati da tetri vapori. Sciagurati partoriscono mostricciuoli aduncorostrati. Alla sera, Belzebubbo vende beffardo morticini canditi all'ombra della basilica antica. Pugifugi deconaemus alebale, dello scongiuro dei quattro niun si avvale.

Il discepolo disse al maestro

Come l’anima possa giungere ad udire e vedere Dio, e cosa sia la sua fanciullezza nella vita naturale e in quella soprannaturale, e come possa immergersi in Dio dalla natura e nuovamente nella natura da Dio, e cosa siano la sua beatitudine la sua corruzione.

1. Il discepolo disse al maestro: “Come posso giungere alla vita soprasensibile, così da vedere e udire Dio?”.
Il maestro disse: “Se potessi per un istante condurti là dove non abita creatura, allora udresti le parole di Dio”.

2. Il discepolo disse: “Questo luogo è vicino o lontano?”.
Il maestro disse: “ E' in te, e se solo per un’ora farai tacere tutte le tue volontà e i tuoi sensi, allora potrai udire le ineffabili parole di Dio”.

3. Il discepolo disse: “E come posso udire, se faccio tacere i sensi e la volontà?”.
Il maestro disse: “Se farai tacere i sensi e le volontà tue individuali, allora l’udito, la vista e la parola eterni si riveleranno in te. E' infatti il tuo proprio sentire, volere e vedere che ti impedisce di vedere Dio”.

4. Il discepolo disse: “Ma come posso udire e vedere Dio, se Egli è sopra la natura e la creatura?”.
Il maestro disse: “Stando quieto e silenzioso sei quello che era Dio prima che la natura e la creatura fossero, e da cui Egli la natura e la creatura tue foggiò. Vedrai e udrai con quanto Dio vedeva e udiva prima che principiassero a essere la volontà, la vista e l'udito tuoi”.

5. Il discepolo disse: “Cosa mi impedisce allora di giungere a ciò?”.
Il maestro disse: “Null’altro che il tuo volere, udire e sentire, e il fatto che lotti contro ciò da cui sei disceso. Con la tua volontà individuale ti separi dalla volontà divina, e con la tua vista vedi solo nella tua volontà, che ottunde caparbiamente il tuo udito con cose terrene e ti trascina in un baratro. L’oggetto del tuo desiderio si poserà come un’ombra sopra di te per impedirti di giungere a Dio”...

Jacob Böhme, da La vita soprasensibile

Videmus nunc per speculum

Di San Paolo, di cui lei asserisce di avere iconoclasticamente, in un momento di follia, sfregiato con le unghie un'immagine, le vorrei soltanto rammentare una notissima frase: videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem (1 Cor. 13, 12). Potrà mai qualcuno di noi sperare di offrire al mondo alcunché di altrettanto puro e perfetto? Quale straordinaria saggezza, quale soave grazia quella della sua povera madre che, seppure inconsapevolmente forse, continuava a porgerle ad ogni suo ritorno a casa la scala che conduce al cielo. Come la invidio, mio giovane filosofo. Che spirito mirabile e Chagallianamente puro questa santa donna possiede! Come vorrei io stesso avere la fortuna di un simile angelo che mi protegga, custodendomi quotidianamente la via. Quale dono prezioso la vita le ha offerto. Non lo sprechi sacrilegamente. Rinunci all'orgoglio che le offusca l'animo, desista dal rovesciare vanamente i tavoli e dal turbare i mercanti, cessi di almanaccare oziosamente di teologia e di nominare la bestia infame. Il suo non serviam, mi creda, finirà per precipitarla rovinosamente nell'Orco. Si liberi, mio giovane Horatio, prima che sia troppo tardi, dalle tenebrose presenze che le circondano come ombre i giorni. Che Iddio possa infine ispirarla.

Caro signore II

Caro signore,

le sono oltremodo grato di continuare ad offrirmi spunti preziosi, per quanto talora illucidi, in merito ad alcune acclarazioni ormai da tempo necessarie concernenti Barocco minimo et alia. Il profilo personale da Lei fornitomi, per quanto limitato (absentia cognominis, in primis, che mi auguro Lei provveda a risolvere in via privata), mi consente quantomeno alcune annotazioni in margine, nulla più badi bene che umilissime postille, le quali potrebbero tuttavia, alla resa finale dei conti, non rivelarsi disutili. In tal sua osservazione Lei fa sorprendente riferimento a Cyberione sotto specie di “personaggio”, oltretutto e presumibilmente inventato dal sottoscritto. Mi consenta immediatamente di correggere tale suo assunto, che le assicuro essere, nella sua sconcertante audacia, totalmente infondato. Mi duole anche lontanamente pensare che si sia mai potuti giungere a siffatta temeraria congettura, che io mi sia cioè mai concesso l’impensabile libertà di “inventare” alcunché, e in materia diaboli per giunta. La creatività, osannata oltre ogni limite di decenza ai tempi nostri, non è mai stata per me, mi creda, motivazione prioritaria.

La possibilità difatto da parte dell’uomo di inventare qualcosa, abbia la bontà di credermi, altro non è che banale e risibile superstizione moderna (una tra le innumeri), tuttalpiù cianfruscola giovanile, e frutto di quell’aporia dell’intelletto che già l’Aquinate, come Lei ricorderà, aveva severamente stigmatizzato a suo tempo. Parrebbe oltretutto quantomeno inopportuno, non le sembra, e forse anche sanzionabile in modum inquisitionis, permettersi di dubitare, persino in un’epoca tepidamente agnostica e insipida quale la nostra, della massima biblica Nihil sub sole novi. No, Cyberione non è mia invenzione: direi piuttosto, ribaltando simmetricamente e con un ardito coup de théâtre, i termini della vexata questio da lei inconsapevolmente ma significativamente sollevata, che siamo bensì noi oggidì ad essere invenzione sua (del detto C., che non è bene nominare spesso).

A riprova dell’esistenza concreta, benché sub specie spirituale, del suddetto ens diabolicum, mi sarebbe assai agevole peraltro, senza spero voler far sfoggio di scolastica erudizione, invocare tutta una filza di fonti inconfutabili, prima tra le quali naturalmente quei Sermones ad mortuos di Carolus Elveticus (apud H. Dendrinum, Amsterdam 1660), cui avevo già debitamente accennato a suo luogo, o il De subtilitate rerum, XXII, 333 di Girolamo Cardano o l’Exotericarum exercitationum dello Scaligero, la cui invettiva non cessa a distanza di molti secoli di stupirci, o la Relatio de ossibus diaboli, Liber 666 del noto eresiarca Maximus Gallobelgicus o addirittura quel celebre secentesco trattato di demonologia che Sua Maestà Iacobus Primus Rex si degnò di comporre o le incompiute Collationes in Hexaémeron di san Bonaventura da Bagnoregio, et caetera.

Il Lexicon latitudinarium medesimo, mi pregio di rammentarle, contiene una voce seppure soltanto in fieri relativa all’argomento trattato, che mi auguro possa presto pervenire alle stampe. Insomma, le fonti stanno lì innumerevoli a squadrarci eloquentemente e a comprovare la mia tesi. Si compiaccia quindi di assolvermi, mio caro signore, da quell’incresciosa attribuzione di cui Lei mi ha fatto, pur se in buona fede, involontario oggetto.

Per quanto riguarda poi “l’arte da museo” e i “decantati classici”, di cui nella Sua mi giunge ingrata notizia, le consiglierei, seppur con la dovuta umiltà e facendo leva sulla saggezza minima che consegue all’esperienza, di desistere dalla pratica dannosa di tali fole, frutto evidente dell’impulso giovanile. Oltre che affliggermi il pensiero all’idea del tempo sovente da molti sprecato in gioventù per tali bagatelle, mi tedia oltremodo la postromantica e imbarazzante inezia della ribellione, trita e ritrita dall’uso dopo due secoli e oltre di illuministici e inconcludenti eccessi. Che l’Arte possa poi venir “dal basso”, come Lei afferma, è teoria di per sé più che mai agghiacciante e latitudinaria (quindi sommamente eretica). Dal basso le giungeranno tuttalpiù le esalazioni carontiche dei mesti avediretti, il lezzo di chi va strisciando sul ventre flaccido della serpe, i dimenamenti pelvicali ossessivi delle bovinde, lo zolfo acre della venetica Biennale, e così via all’infinito e postmodernamente elencando. Il diavolo, non esiti a credermi, è un gran dottore, e di filosofia e rettorica un insuperabile maestro.

Si sforzi quindi, mio giovane Horatio, di dissipare dalla sua mente confusa al più presto i phantasmata dei virtualia, che con i loro lacci e tranelli la trascineranno prima o poi di sicuro alla botola oscura della rovina. Si abbandoni alla guida della grazia dobbsiana senza la quale non puote esservi salvezza. Il fatto stesso che la sorte l’abbia condotta in questa direzione potrebbe assurgere a segnacolo d’un itinerario nuovo.

Del mio mestiere, poco le posso dire, se non che di massima mi curo di questioni escatologiche e consimili. Da decenni ormai, rinchiuso pensosamente nella penombra della mia torre e prigioniero rassegnato d’un vasto specchio in un palazzo veneziano, vado occupando le mie giornate nella compilazione minuziosa di quell’opus magnum al cui termine temo che mai potrò sperar di giungere. Le basti il suddetto a soddisfazione, per quanto immagino parziale, dei suoi pur legittimi e comprensibili quesiti.

Il significato di Barocco minimo è, per quanto mi riguarda, abbastanza ovvio: in oxymoro stat veritas. Cosa affermare di più al riguardo? Il termine mi giunge dall’alto, et hierarchia occulta, per così dire. Non me ne attribuisca, la prego, il merito, di cui mi professo sinceramente indegno.

Come ultima osservazione, e forse la più rilevante, mi preme sottolineare la presenza, probabilmente da Lei trascurata in quanto scarsamente visibile, della fuggevole punteggiatura a seguito del nome Barocco minimo. Non potrebbe porsi l’ipotesi, cortesemente le chiedo, che in quei tre puntini possasi celare la cifra ultima d’un qualche significato? Non parrebbe tale punteggiatura indurre al sospetto di una qualche presunta continuazione a completamento del titolo? E se tal esso fosse, non si prospetterebbe allora l’esistenza, per quanto dissimulata, d’una facciata occulta a retro dell’apparato accattivante del nomen? E in cosa potrebbe mai tal completamento consistere? E potremmo noi inoltre considerare il titolo Barocco minimo come soddisfacente di per se stesso, senza cioè la parte completiva e segreta al seguito? Potremmo cioè, in altri termini, accontentarci della facciata visibile della luna senza saper alcunché di quella nascosta e speculare ad essa che si cela segretamente alla vista comune?

Non è forse tutto ciò, mio caro Horatio, materia più che sufficiente a sollecitare una complessa riflessione?

Rinnovandole i miei voti di cortesia, ne approfitto per porgerle i più cordiali saluti,

il suo devot.mo et caetera et caetera.

Die X mensis Septembris, anno Domini MMVII

Caro signore

Caro Signore,

confesso che l'informalità invero sconcertante della comunicazione in rete non cessa mai di sorprendermi. Non ho purtroppo l'onore di conoscere nulla di Lei: né il nome né altro. Gradirei pertanto avere qualche notizia concreta a tal proposito. Inoltre, non comprendo bene ciò che Lei intenda dire esattamente, in questo caso, per cortometraggio, e cosa intenderebbe per "prendere spunto" da Barocco minimo. Come vede, navighiamo un po' per acque assai profonde. Scilla e Cariddi rischiano di cozzare ad ogni istante e di travolgerci le imbarcazioni.

Le faccio presente che l'intento principale di Barocco minimo non è quello di palesare sfacciatamente la propria presenza, ma piuttosto quello di nascondersi il più possibile tra le pieghe multitemporali dell'insidioso universo di Ciberione, onde evitarne gli influssi spesso pestilenziali, di cui purtroppo i contemporanei sono quasi sempre, e a mio parere colpevolmente, inconsapevoli. A proposito di tali influssi, avrò agio, come spero, in seguito di fornirle informazione.

Cortesi saluti.

E giunse il giorno

E giunse il giorno. E finalmente se ne andò. Scaramanticamente, almeno, pensai che fosse giunto, ma mi accorsi che forse avrei dovuto attendere oltre. Chissà ...

Del furore d'aver Libri

Per questi convien chiuder le Librerie, e nascondere i buoni e scelti Libri, imperciocché, avverandosi pur troppo del continuo il detto della Scrittura che stultitia colligata est in corde pueri (Proverb. 22, 15) siccome i fanciulli plebei per natural maligno istinto sono portati a diformare i prospetti delle imbiancate case, e delle colorate porte, o che so io; così gli applicati agli studj, come per lo più di civil condizione, per la stessa cagione sono incitati a schiccherare, ed isporcare, a tagliare, forare, e in altre guise a malmenare i Libri che adoprano, non perdonando agli stessi Sacri, coll'occasione di rispondere alle Messe, trattenendosi perciò innanzi nelle Sagrestie. Una volta mi abbattei in un ottimo Libro, cinquanta e più carte del quale erano ne' sottoposti margini regalate d'un ingiurioso titolo, sempre vario; segno evidente d'abusato ingegno in un di costoro. Abbondano i Libri antichi di figure ridicole, di sciocche postille, e massime ne' frontispicj, e ne' fini, d'inconditissimi schiccheramenti, oltre a' tagli, e alle profonde punture d'acuti ferri. Questa è la cagione funesta per cui, e. gr. il Virgilio Aldino del 1501 ch'è il primo Libro stampato in carattere corsivo, da Aldo inventato; che le Pistole Famigliari di Cicerone di tutte l'ottime antiche Edizioni, e altri Libri somiglianti, usati nelle Scuole, o non si trovino, o, se pur si ritrovino, sieno così rovinati, o mancanti, che eccitano nausea e dispetto ne' dilettanti. In varie Librerie e pubbliche e private si conservano preziosi Manoscritti in membrana deformati dal taglio de' principj dipinti, e delle iniziali miniate e dorate. Io vidi, e maneggiai un antico Breviario scritto eccellentemente in pergamena, con figure e miniature elegantissime per que' tempi, mancante di molte di esse (e saranno state senza dubbio le meglio conservate, essendo le rimase intere alquanto sparute ed offese). Ma un esempio in questa materia succeduto qui in Padova, molti anni sono, in casa d'un dotto uomo, che avea posta insieme una buona Libreria occupante un'intera stanza, tutti gli altri sorpassa. Alcuni insolentissimi figliuoli (de' quali è feracissimo il nostro secolo) di detto Signore, penetrando spesso nella paterna Libreria, anche in assenza del genitore, ed essendosi accorti che molti di que' Libri erano adorni ne' principj di belle figure, ed imprese intagliate dilicatamente sul rame, (come per lo più sono quei d'Inghilterra, e d'Ollanda) tutte col tempo le tagliarono, o staccarono, per adoprarle in fornire altarini, o in altri sciocchi e fanciulleschi usi. Di che finalmente accortosi il Padre, fu per morir di rammarico d'un tal gravissimo disconcio e danno, e di così enorme deformazione degli amati suoi Libri: e dopo d'averne fatti rappezzar varj alla meglio che per lui si poté, si sfogava tratto tratto cogli amici, fra' quali pur me computava, col raccontar loro un così funesto accidente. Ma dirà forse tal'uno: «Qual rimedio usar si dee per evitar somiglianti disordini? Forse si debbono somministrare a' fanciulli Libri di pessime e scorrette stampe (i quali anche al dì d'oggi non mancano), con pericolo che in vece d'imparare, s'imbevano di pregiudizi e di errori? questo sarebbe l'imitar colui che incidit in Scyllam, cupiens vitare Charybdim». A che rispondendo, dico in primo luogo, che convien porre in pratica il suggerimento della stessa Divina Scrittura immediatamente soggiunto alla sentenza poco sopra addotta intorno alla stoltezza de' fanciulli, cioè: Et virga disciplinæ fugabit eam: e visitando spesso i ripostigli de' loro Libri, ed accorgendosi di maliziosi deterioramenti di essi, farli loro costar cari col castigarne gli autori. Ovvero provveder loro Libri bensì d'ottima stampa, ma maltenuti, o mancanti ne' luoghi non necessarj; de' quali si abbonda già molto per grazia degli antichi lor pari; i quali con tal disordine avran cagionato almeno a' posteri questo opportuno rimedio, e ordine; imitando così (benché in modo affatto dissimile) coloro che serunt arbores quaæ alteri sæculo prosint; coll'aver rovinato a' lor tempi que' Libri che, usandosi a' nostri, vengano a preservare interi i scelti, i rari, e per la maggiore antichità di molto ancor più pregiabili, che tuttavia pur sussistono.

Brano tratto da Gaetano Volpi: Del furore d'aver Libri.

Cyberione e i demoni

Barocco minimo = spazio puro e sacrale, temenos impervio alla profanità contemporanea, luogo di rifugio interiore, fonte di occasionali e rare parole, umile tentativo di fuga dal regno dilagante di Cyberione, tremendo tra i demoni della nostra epoca, e dalla serra malsana e torrida dell'anticultura giornalistica e televisiva, rifiuto della logica binaria programmatrice del pensiero dell'uomo, cavallo di Troia nel seno della metropoli annichilatrice, rivendicazione di un ultimo e sereno respiro che ci sottragga al massacro inverecondo dei valori in occidente, rifiuto incondizionato del diabolico Latitudinarismo trionfante odierno.

Storia dei Latitudinari

Lunga e complessa è la storia dei Latitudinari, e chissà che un giorno io non riesca finalmente a delinearne i contorni incerti e a diradare il fitto alone di mistero che pare circondarne l'esistenza. Nel frattempo credo che giovi tentare di spiarne gli usi e i costumi, e accumulare le notizie scarne e fondamentali per potere allestire una documentazione quanto più possibile soddisfacente. E' piacevole, nei pomeriggi di quiete primaverile, frequentare in incognito i luoghi consueti della loro cieca e vana peregrinazione.

Borges delle vertigini

Scrive Cristina Campo a proposito di Jorge Luis Borges:

"Nel blocco cieco, mutilo e massiccio del secolo, crea leggermente, vertiginosamente un’apertura: ci lascia intravedere ancora una volta lo sterminato mondo che sta dietro quello vero e senza il quale il mondo vero sarà presto un mondo spettrale. Il suo gesto è simile a quello della maga persiana che gettando grani d’incenso su un braciere “apriva nel fumo con le due mani una porta” – e per essa i prigionieri passavano nei giardini e nei boschi che credevano di avere dimenticato".

Parole esse stesse magiche, come sempre lo sono quelle della scrittrice.

El viejo barrio montevideano

"Fue por allá, por fines de los cuarenta y comienzos de los cincuenta. Mi barrio, el Parque Rodó era, como casi todos los otros barrios montevideanos, tranquilo y familiar. Claro: nosotros teníamos la ventaja de contar con ese precioso parque, para acceder a él de día o de noche, para observar los cambios de sus eucaliptos en el invierno, en la primavera, en el verano y en el otoño. Para subir casi hasta la punta de sus pinos gigantes, trepando una a una por sus ramas gruesas y geométricamente perpendiculares al tronco. O para jugar al fútbol en alguno de sus canteros.
Para nuestros “picados” usábamos como cancha uno que iba desde la Avenida Gonzalo Ramírez hasta el comienzo del alambrado que bordeaba “El Retiro”, paralelo al fin curvo de la calle Lauro Müller y al comienzo de la calle Joaquín de Salterain. Era un cantero “en subida”, o “en bajada”, dependiendo, como siempre, del punto de vista del observador. Pero, en todo caso, tenía árboles dispuestos de tal manera que se formaban dos arcos casi iguales. Y el piso, dependiendo de la estación, tenía más o menos superficies verdes de grama, o menos o más superficies marrones, de tierra. O barro. La pelota podía ser de trapo o de goma. Nunca se llegó al lujo de jugar con una de cuero. Ninguno de los participantes era propietario de una."

Ariel Manzur (El Virola), Cuentos de un viejo.

Parole dolenti

Scrive Marc Fumaroli che "la televisione è un ottimo strumento qualora non si abbia nulla da perdere, come nel caso di un paese di indole nomade e privo di radici quale gli Stati Uniti, ma in Europa l’effetto dell’apparecchio televisivo è simile a quello di uno schiacciasassi che riduca la cultura al suo più basso denominatore comune". Parole dolenti, quelle del famoso teorico francese della retorica, eppure, temo, parole inutili, a giudicare dalla condizione di assuefazione pressoché totale della mente umana causata dal diabolico congegno. Ha scritto recentemente Piermaria Sauro di Montechiara, il noto studioso di semantica demonologica: “Solo attraverso l'assoluto e incondizionato digiuno mediatico possiamo sperare di dissipare, almeno in minimissima parte, le tenebre fitte con cui la tecnologia dell'informazione ha mortalmente e irreversibilmente avvinto le nostre menti, trasformandoci in pupazzi di cera ambulanti. Ci hanno convinti che sia necessario ascoltarli, che si debba essere informati, che non sia possibile sopravvivere senza la loro spaventevole volgarità, il riprovevole terrorismo psichico quotidiano, peggiore e più velenoso di ogni altra forma di terrorismo, l'assurda manipolazione della realtà, i degradanti spettacoli di varietà. Questa è la loro Grande Vittoria: il fatto che la gente non rinunci ad ascoltarli, non ritrovi infine la dignità e la forza di riuscire a dire: non accenderò più la televisione, voglio essere libero”.

Potremo mai sperare di ritornare un giorno ad essere delle persone libere?

Mappa mundi

Tra le più straordinarie figurazioni del globo terracqueo merita senza dubbio di essere annoverata la medievale Mappa Mundi del Beato di Burgos de Osma (Cod. 1, Catedral, VIII secolo, Biblioteca Nacional, Madrid), con il tondo oceano che circonda le terre come una serpe costellata di pesci e, a destra, lo straordinario sciapode supino ai raggi infuocati del sole nella terra incognita.

Pulvis et umbra

Mi accade talvolta di rileggere stralci dai vecchi tomi scolastici, di imbattermi in perle antiche, in rammemorazioni dei tempi liceali, di interrogazioni inattese nelle vecchie aule che davano sul chiostro, quando la vita sapeva ancora di autunni dorati e fosche primavere:

"E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gittassero fuoco, e odono voci uscire di quel lago e stridere, come di mirabili popoli che piagnessero e urlassero. E pervenuti che sono fra due monti altissimi, appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con quattro catene, e due delle quali eran confitte nell'un monte e l'altre due nell'altro; e tutto intorno a lui era fuoco, e gridava sì fortemente che si udiva bene quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro, nel quale vedono una femmina nuda, laidissima e scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo, e quando ella volea aprire la bocca per parlare o per gridare, quel dragone le mettea il capo in bocca, e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi infino a terra."

Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura del dragone: "Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori, e la barba e i capelli pareano d'oro, e ' denti suoi parevano di ferro, e gli occhi acuti e lucenti come fuoco acceso, e colla bocca aperta menava la lingua, e parea che per le nari e per la bocca gittasse fuoco, e puzzo gittava di zolfo."

Tra le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio di frate Alberico, e quella d'Ildebrando, poi Gregorio settimo, che predicando innanzi a papa Niccolò secondo, narra di un conte ricco, e insieme onesto, "ciò che è proprio un miracolo in questa gente", egli dice. Questo conte, morto dieci anni innanzi, fu visto, da un santo uomo ratto in ispirito, starsi al sommo d'una scala lunghissima, che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù nell'inferno. Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte, con quest'ordine, che quando alcuno moriva di quella famiglia, doveva occupare il primo gradino, e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un grado verso l'abisso, dove tutti l'uno appresso l'altro si sarebbero riuniti. E chiedendo il santo uomo come fosse dannato il conte, che avea lasciata in terra buona fama di sè, si udì una voce rispondere: - Uno degli antenati, di cui il conte è l'erede in decimo grado, tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione. - Questa pena, che colpisce un'intera generazione, è molto poetica, mostrando l'inferno nel sublime d'un lontano indeterminato, messo costantemente innanzi all'immaginazione de' condannati, che a grado a grado vi si avvicinano insino a che non vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di morire, il terribile prete vuole che ei sentano l'inferno.

Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, è il peccato; che la virtù è negazione della vita terrena, e contemplazione dell'altra; che la vita non è la realtà, ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtà non è quello che è, ma quello che dee essere, ed è perciò la scienza, o la verità, come concetto, e come contenuto, è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio e il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia.

Appunto perché l'individuo è pulvis et umbra, e la realtà è pura scienza ed un di là della vita, questo mondo resiste ad ogni sforzo d'individuazione e di formazione. Lo stesso amore, così possente, non ci può gittare un po' di calore e non ci vive se non come figura e immagine dell'amore divino. La donna, come donna, è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l'uomo a Dio."

Giuseppe de Sanctis, Storia della letteratura italiana.

Stampatori celebri

"Gli amatori de' buoni Libri debbono conoscerli tamquam ungues digitosque suos. Il Chiarissimo Gio. Alberto Fabricio in fine del Tomo I della sua Biblioteca Latina ne tesse un lungo Catalogo; ma siccome molti di quelli in Italia son poco noti, così io, traendoli per lo più da esso, ne registrerò qui i più da noi conosciuti, per i loro cognomi posti per via d'alfabeto, pronunziandone alcuni nel numero plurale, perché varj discendenti dal primo, seguirono ad illustrare l'Arte Tipografica; lasciando per altro di annoverare gli antichissimi, benemeriti essi pure per avere copiati immediatamente i Codici MSS. Sono adunque per lo più: Ascensio, Asolano, Basa, Bellero, Blaew, Bombergio, Cesio, Cholino, Chovet, Colinéo, Commelino, Cramoisy, Cratandro, Crispino, Doleto, ab Egmond, Elzevirj, Episcopio, Frellonio, Frisio, Fritsch, Frobenj, Froscovero, Gimnico, Gioliti, Giunti, Goltzio, Griffj, Hackj, Hervagio, Jansonj, Isingrino, Juvene, Maire, Manuzj, Maximus Gallobelgicus, Memmio, Milangio, Morelli, Moreti, Nivellio, Nuzio, Oporino, Patissonj, Perna, Petri, ad insigne Pinus, cioè Anonymus Augustæ Vindelicorum, Plantino, Quentelio, Rafelengio, Rielio, Rovillio, Seldoniano Teatro in Oxfort, Stefani, Tiletano, Torrentino, Tornesj, Turnebo, Vascosano, de Vogel, Wecheli, e Wecheliani Eredi, Wetstenj, Winter. Ce ne sono varj anche a' giorni nostri in Italia che meriterebbero d'essere nominati con lode; come in Bergamo, Bologna, Brescia, Firenze, Lucca, Napoli, Padova, Roma, Torino, Venezia, Verona ec. specialmente per certe celebri Opere da essi accuratamente pubblicate; ma ciò più opportunamente faranno i nostri posteri."

Gaetano Volpi, Del furore d'aver libri, Varie Avvertenze Utili, e necessarie agli Amatori de' buoni Libri, disposte per via d'Alfabeto.

Est ubi gloria nunc Babylonia?

Che cosa rimane mai di tutte le bellezze e gli splendori umani? Un ricordo, un nome. E di Aristoteles, summus ingenio, che cosa mai rimane se non una galleria di specchi, che ad altri specchi rimandano?

Est ubi gloria nunc Babylonia, nunc ubi dirus
Nabuchodonosor et Darii vigor illeque Cyrus?
Qualiter orbita viribus incita praeterierunt.
Fama relinquitur illaque figitur; hi putruerunt.
Nunc ubi curia pompaque Iulia? Caesar, obisti.
Te truculentior, orbe potentior ipse fuisti.
(...)
Nunc ubi Marius atque Fabricius, inscius auri?
Mors ubi nobilis et memorabilis actio Pauli?
Diva Philippica vox ubi coelica nunc Ciceronis?
Pax ubi civibus atque rebellibus ira Catonis?
Nunc ubi Regulus aut ubi Romulus aut ubi Remus?
Stat Roma pristina nomine, nomina nuda tenemus.

Bernardus Morlanensis, De contemptu mundi, Liber primus.

Tango illunato

Maschere contrapposte danzano nella penombra, celano altre maschere, volti diversi. Si ritraggono e avanzano, si sovrappongono quasi scomparendo. Maschere e lontananze creano volumi nuovi, ma i danzatori non stanno affatto più lì. I loro passi soltanto fingono, e a chi li osservi con occhi grondanti di luna non potrà sfuggire quel rimestare lento dell’aria, quel sacrificio sommesso che in ciascuna figura evoca uno spazio nuovo. Le ombre si mescolano ad altre ombre e muoiono. Le maschere sacrificano alle Muse delle tenebre il miele attoscato del giorno.

Iconografia carontidea

Il fatto che, in un’epoca sommamente incline all’immagine quale la nostra, non esistano raffigurazioni iconografiche ufficialmente attestate dell’enigmatica ma bastantemente comune figura del Carontide (neppure, si badi, nell’ambito della rete informatica, eterodossa e fagocitante matrice di grafiche subliminali) induce più di un dubbio a riguardo di parecchie questioni. Del Carontide, ricorderà il lettore, ho già voluto fornire una puntuale definizione tratta dal monumentale Lexicon Latitudinarium, la fonte etimologica più autorevole in materia attinente alla sconcertante latitudo morale dei nostri tempi.

Quale potrebbe essere, diviene legittimo chiedersi, il motivo di tanta riservatezza laddove di Carontidi si tratti? Perché una tale forma, mi si permetta l’espressione, di integralismo iconografico a loro riguardo? Che vi sia qualche misteriosa congiura di grafica omertà? Che si apparecchi qualche macchinazione o alto intrigo d’Olimpico corridoio? Che esistano strategie di salvaguardia commerciale che impediscano la pubblicizzazione del nome del ruolo e della figura carontidei? Tutto è possibile. Sta di fatto che il Carontide appare oggi aureolato di un consenso sociale inaudito fino a tempi assai recenti. Che sia addirittura, fa capolino il sospetto, non più di tolleranza ma di vera e propria complicità che sia lecito parlare? O forse qualcosa dopo tutto mi sfugge? Un qualche sofisma logico di quelli consueti, che recano in sé la giustificazione della catastrofe di una cultura intera?

Pegaso e gli acchiappagonzi

Acchiappagonzi bàlzano repentini sulla groppa di Pegaso e dan scompostamente di sperone ai reni. Si autonominano poeti, smaniano invano e propugnano estetiche rivoluzionariamente nuove. Strepitano come femminucole bisbetiche e scagliano anatemi. Percuotono pelli di tamburo all’angolo del quartiere e recitano auto da fé impossibili. Ma poi, basta che il mitico destriero dalla criniera burrascosa s’impenni lesto in verticale ascesa e si ritrovan come se nulla fosse disarcionati nella fanghiglia. Vi sguazzano dentro a quattro zampe allegre, come cianciabarucchi molesti e dissennati che il fato abbia sdegnato di assecondare. Le Muse sorridono: a che vale meritarne lo scherno così, mi chiedo sgomento?

Esule a Parigi

Barsabucco vende i biglietti a prezzo scontato al piccolo Ridotto. Vibrano i tamburi nell’anticamera della notte. Gli dèi si spiano, vicendevolmente gelosi delle proprie impulsive e fosche voluttà. Incombe l’Africa come una tenebra incontesa: che sia soltanto un sipario da tragicommedia giacomiana codesto che mi si para innanzi? Maculato di pece scarlatta e nei panneggi lacero, esso pare che stenti in qualche modo a levarsi, a rivelar la scena. Forse la scena non c’è, soltanto gli àssiti corrosi. Qualcosa si vede però: è forse Tito Andronico o è Aronne colui che incede laggiù, assetato di nuove tracotanze? E se fosse soltanto un’ombra? A ben considerare, penso proprio che questa sera me ne andrò cheto a bazzicare altrove. Cercherò liti migliori in cui affogar gli affanni. Forse al Poeta troverò di che cenare all’italiana. In fondo mi basterebbe finir la giornata così, con un piatto caldo e le vocali appropriate, che anch’esse in questa sera d’autunno stentano a venire.

Audace scuola boreal

Beatamente ignaro di ben peggiori future usurpazioni che sarebbero accadute nel nostro paese, così andò secoli or sono sermoneggiando adirato il Monti sul decadere della mitologia classica, il cui trono egli ritenne fosse oramai irrimediabilmente usurpato da quella che gli piacque definire la nuova audace scuola boreal:

Audace scuola boreal, dannando
tutti a morte gli Dei, che di leggiadre
fantasie già fiorîr le carte argive
e le latine, di spaventi ha pieno
delle Muse il bel regno. Arco e faretra
toglie ad Amore, ad Imeneo la face,
il cinto a Citerea. Le Grazie anch'esse,
senza il cui riso nulla cosa è bella,
anco le Grazie al tribunal citate
de' novelli maestri alto seduti
cesser proscritte e fuggitive il campo
ai Lemuri e alle streghe. In tenebrose
nebbie soffiate dal gelato Arturo
si cangia (orrendo a dirsi!) il bel zaffiro
dell'italico cielo; in procellosi
venti e bufere le sue molli aurette;
i lieti allori dell'aonie rive
in funebri cipressi; in pianto il riso;
e il tetro solo, il solo tetro è bello.

E tu fra tanta, ohimè! strage di Numi
e tanta morte d'ogni allegra idea,
tu del Ligure Olimpo astro diletto,
Antonietta, a cantar nozze m'inviti?
E vuoi che al figlio tuo, fior de' garzoni,
di rose còlte in Elicona io sparga
il talamo beato? Oh me meschino!
Spenti gli Dei che del piacere ai dolci
fonti i mortali conducean, velando
di lusinghieri adombramenti il vero,
spento lo stesso re de' carmi Apollo,
chi voce mi darà, lena e pensieri
al subbietto gentil convenienti?

Vincenzo Monti, Sulla Mitologia.

Lexicon latitudinarium, I

Il Lexicon Latitudinarium è ormai giunto, per venerando e storico tragitto, al trentaseiesimo volume, e alla stesura delle definizioni di alcuni lemmi minori mi pregio di avere in minimissima parte collaborato. Né al lessicografo né al lettore accorto che abbia qualche volta inteso giovarsi dell’ausilio etimologico di tale illustre strumento e mettere mano ai suoi monumentali regesti sarà sfuggita di certo una voce dal carattere indubbiamente dotto e dalla pertinenza più che mai attuale, che qui voglio riproporre per il beneficio dei miei lettori:

Carontide = sostantivo e, in rari casi, aggettivo (Carontideo risultando più comune nell’uso aggettivale). Tardo postmoderno; voce dotta attestata in tempi relativamente recenti, dal dantesco Caronte (nocchiero infernale, Inferno, Canto III). Altri (A. T. de Bosci) pensa che riproduca una voce assira, forse di derivazione chtuliana, col senso di mago, siccome divinatore d’oracoli, e accosta a charontidan, immagare, ma probabilmente trattasi di voce con doppio significato, come farebbe crederlo il sscr. Khar-in, che propriamente vale purificare e fig. festeggiare, onorare e poi sacrificare (onde Karhia, grande sacrificio, oblazione).
Termine di sfumato dileggio e palpabilmente intriso di ironia sottile.

Pallido nocchiero informaticus; homunculus ludiferus cinico e rettorico; esangue (e "bianco d’antico pelo") adoratore del dio Modem; individuo volgarmente dedito allo spaccio di ludi virtuali et alia intesi al traviamento dei giovani intelletti. Psicopompo cibernetico e traghettatore transacherontico d’anime prave e afflitte da incontinenza virtuale. Microsofticus o Linusianus che egli sia, il Carontide procura di traghettare gli ingenui Adediretti all’altra riva, id est alla dannazione finale del gioco, nella tenebrosa palude profonda e perduta di Luduslandia. Seguace del subdolo dèmone Ludifernus (o Lussiferus), ipostasi serpentiforme di Caim, il grande sofista, egli professa fede assoluta nel Vuoto Pixelliano, pratica sacrifici talora cruenti e si prostra servilmente dinnanzi ai piatti schermi informatici, dispensatori di perdizione. In nomine formattationis, il Carontide, vettore addivinato di inevitabile espiazione, non esita a rimasterizzare i cerebri inermi dei suoi accoliti fino ad alchemizzarli in tenebrose voragini floppizzate e vacue. Non esistono, che se ne abbia notizia al momento attuale, raffigurazioni iconografiche che ne illustrino la tipologia emblematica, a meno che non si desideri ricorrere a icone di carattere peraltro riconoscibilmente spurio.
Deriv. Carontideo; Carontizzare; (In)carontizzato (?)

Emblemata

Mi è stato chiesto il perché delle due figure dal capo bendato al sommo della pagina; se abbiano senso emblematico e quale esso sia, nel caso. Non credo si possa realmente squadernare il senso di un simbolo, se non in modo approssimativo, e quindi meramente antologico e pertanto fuorviante. Mi è parso di scorgere nei danzatori bendati della raffigurazione una qualche affinità simbolica con certi qual Latitudinari di cui ho discorso inizialmente, gente che parrebbe prendere disinvoltamente alla larga le cose serie, cercare sempre scorciatoie, non soffermarsi mai al momento giusto, dileggiare gli dèi, ritenere che tutto sia d’intorno dovuto loro gratuitamente, che tutto sia profano, profanatori in fondo essi stessi, popolo del nuovo millennio insomma, succubi di mille spettri, adoratori di schermi a cristalli liquidi, pallide larve trapunte di metallici innesti o di idee d’atroce attualità. La benda potrebbe essere la nebbia che avvolge loro il capo, che si tramandano l’un l’altro, che impedisce loro la vista, che li costringe a menar danza accademica o puramente fatua, danza sommamente imbustata, priva di sentimento, cioè. Emblemata essi stessi del vuoto, tali Latitudinari (di cui già non mancai di ricevere precaria e iniziale notizia illo tempore, prima della catastrofe, quando gli ultimi prati ancora cingevano di margherite le antiche mura della città) mi appaiono epigoni ossessivi di una sconcertante postfilosofia, omuncoli Hitchcockiani destinati a precipitare dalle più alte torri. Ritengo infine, per farla più breve e trasparente, che i simboli non si debbano svelare e che meno si concettualizzi sopra di essi meglio sia, poiché è extra limen che essi andranno ad operare, a trasmettere intuizioni antiche, a scuoterci da questo nostro torpore terminale.

Tango finale

Ballerina: Invitami alla pista almeno per questo tango finale, ballerino orgoglioso e fiero.
Milonguero afflitto: Danzerei invero con te, adirata magalda, se una trista versiera non fossi, se non mi rendessi arduo misurare i miei passi al compas del tuo compiacimento. Non sai che interdetto è alle signore pressare invito? Ti prego quindi di cabecear lungi da me. Risparmiami il tuo ardito Piazzolla, che mal si addice comunque ai nostri vecchi labirinti. “El tango es el encuentro de dos exilios”, tu affermi, sfoggiando ispanica possanza. E se pur fosse? “Ver bailar el tango es ver desposarse dos espejismos”, aggiungi poi. E con tutto ciò? Mi tedia questa tua linguistica erudizione, quasi intendessi pormi di fronte a filologie e fatti compiuti di cui ignoro il senso. Mi aggrada profumare la notte con semplici arabeschi, e disdegno malinconie che si aggiungano a questa mia che mi contrista.

... e intanto i merli

La rondine: “… e intanto i merli prosperano ciurmando goffi Soloni e senza ritegno alcuno”, mi andava così significando un augusto e indignato cappone alcuni giorni or sono. Che sarebbe pressappoco a dire che i merli dal piumaggio bigio assumono talora penne sgargianti e vanno intrecciando traiettorie miste per l’aere, senza che gniuno procuri di ostacolarne il volo. Merli bricconi e di mal consiglio, perciò. Eppure quando i lacciuoli della Fortuna, talvolta distratta, si serreranno sopra di essi, torneranno pennuti dimessi quali la sovrana Natura un dì intese.

Fortuna: dal latino "fortuna(m)", da "fors": 'caso'. Terribile vox media che può indicare alternativamente felice sorte o destino avverso. Antica divinità romana, personificazione guerriera della forza che guida e avvicenda i destini degli uomini, ai quali distribuisce ciecamente benessere e ricchezza oppure infelicità e sventura.

Nachstücke offresi

Nachstücke offresi: al lato dei banconi di ghiotte cibarie allineati, nella penombra fitta del vespro settembrino, spiccava sotto l'antico Salone a lettere gotiche ben rilevate lo strano avviso.

Stultorum plena sunt omnia

Mi disse che vi sarebbe stata un’altra conversazione tra un paio di giorni: altre frascherie e cianciafruscole furiosamente balestrate in capo altrui, suppongo. Mi premurai di racimolare alla meno peggio qualcosa di minimamente ameno da leggere. Almeno non li avrei ascoltati, pensai. Meglio ancora sarebbe stato in qualche guisa tapparsi le orecchie, magari con la mitica cera di Ulisse, quella che egli raccomandò ai suoi compagni naviganti, per impedire loro che le voci fatidiche delle Sirene li trascinassero ai fondali. Stultorum plena sunt omnia.

Egli debb'esser un Narciso!

Infuria soavemente l'onda lirica, che un po' dovunque si spande:

Ninnetta: "Capelli biondi, occhi neri, ampia fronte e tondo il viso."
Il Podestà: "Cospetto! Egli debb'esser un Narciso! E tondo il viso! E poi?"
Ninnetta: "Divisa gialla con mostre rosse. Stivaletti bianchi. Se mai costui passasse sul vostro territorio, addirittura fatelo imprigionar."
Il Podestà: "Sarà mia cura. Vediam se mai per caso… Olà, buon uomo!"
(Gioacchino Rossini, La gazza ladra, atto 1)

Salieri avvelena Mozart

Salieri avvelena Mozart e poi dispera. Già avverte il ludibrio del gran consesso adunato al vertice del remoto Olimpo, per schernirne l'impresa vana e mal condotta. Cala la notte fitta e tenebrosa. Nottole fosche creano labirinti nello spazio raggelato:
Terribil ombra
giganteggiando si vedea salire
su per le case e su per l’alte torri
di teschi antiqui seminate al piede.
(Parini, La notte, vv. 10-13)

Macchine miracolanti

Macchine miracolanti dominano lo spazio, usurpano l'insula utopia della felicità. Ciascuna stanza ne offre almeno una, subdolamente riposta in qualche angolo appartato, pronta a spalancare anditi ignoti verso l'oscurità. Il dio informatico riveste abiti d'anticristo e scava abissi di tenebra nelle menti semplici degli apprendisti del vuoto.

Lo straniero

Poi giunse uno straniero, greve negli anni e un po' tarchiato, che si diede a spargere ogni tipo di fanfaluca e paradosso, pensando in cotal modo di rendersi ameno ai cittadini dello strano luogo. Lungi da lui era il comprenderne i costumi astrusi, all'apparenza remoti e sragionati. Indotto rapidamente allo sgomento e reclinata la propria mole a ritroso verso il tramonto, digrignò con sdegno i denti alle più vane accuse, attirandosi censure severe e motteggi da chi mai mancava di dileggiare i viandanti improvvidi e saccenti. Gli ingiunsero l'umiltà e il silenzio. Per sette anni avrebbe dovuto tacere, percorrendo le vie rivestito del saio cinerognolo che ben s'addice agli stolti.

Storie da raccontare

Esistono storie, convengo, che converrebbe raccontare, se non si rischiasse di suscitare l'incredulità di chi le legga; storie che farebbero rabbrividire e che indurrebbero allo stupore. Tali storie è forse però meglio tacere, onde non ridestare le menti a ciò che non potrebbero comunque afferrare. Il mistero avvolge ogni cosa, e le motivazioni delle azioni umane sfuggono invariabilmente al vaglio approssimativo della ragione.

Sermones ad mortuos

Ricordo d'altri cui l'aria antica del luogo e la polvere lenta avevano incartapecorito l'anima. Si trascinavano recitando Sermones ad mortuos quasi si trattasse di semplici nenie propiziatorie o, chissà, di scongiuri per poter varcare soglie invisibili o incomprese. Grottescamente, si rivestivano di penne e si affiggevano al capo astrusi puntali, procurando di dare ad intendere che alcunché pur essi sapevano; alcunché di copernicanamente accetto agli dèi che ne governavano con mano severa le giornate pigre. Poi giungeva la sera, carica della mestizia che accarezza con dita crudeli i chiostri, e costoro se n'andavano reclinando la figura stanca, quasi intuissero che la notte li avrebbe presto carpìti a sè trascinandoli verso l'oblio.